giovedì 5 luglio 2012

Frammenti di un discorso amoroso, Roland Barthes


L’amore...tremendo estraneo! “Amare è soffrire, se non si vuol soffrire non si deve amare, però allora si soffre di non amare; pertanto amare è soffrire, non amare è soffrire e soffrire è soffrire!”, dice Diane Keaton nel finale di Amore e Guerra di Woody Allen. Sempre si ha a che fare con definizioni paradossali dell’amore, perché esso è in sè stesso contradditorio: “the more I give to thee, the more I have”, naturalmente Shakespeare (curiosamente evitato tra le infinite citazioni che costituiscono il libro, evidentemente apposta; da capirne meglio il motivo...).
Barthes indaga sull’Innamorato, utilizzando un “metodo drammatico” in cui gli dà voce, gli permette di dire delle cose, lo sorprende in una figura di movimento: cioè discorso amoroso va inteso in senso ginnico diciamo, vale a dire “la figura dell’innamorato al lavoro”. E così si “sprofonda nel frammento” (come diceva Adorno sulla Recherce). Non c’è un ordine, non c’è dialettica, non c’è una costruzione verticale (orizzontale sì), e nemmeno psicologia. 
Una specie di struttura emerge mentre si legge, piano piano, e ci si diverte a riempirla con la propria esperienza vissuta. Sono esempi, descrizioni, abbozzi che, parlando di astratti e generici episodi d’amore, restituiscono una lieve traccia, che spesso si fatica a comprendere, a volte non si riconosce, mentre più spesso ce ne si impossessa con entusiasmo: “è proprio così!” si pensa leggendo, tranquillizzati e rianimati da questo riuscito tentativo non di esprimere, ma di far passare al lettore concetti così delicati, così sfuggenti (la “vaporosa nebbiolina formata dai sospiri”, sempre Romeo e Giulietta). “È come se vi fosse una Topica amorosa...la peculiarità di una Topica è di essere un po’ vuota: per sua essenza, una Topica è per metà codificata e per metà proiettiva” viene spiegato nell’introduzione. Dunque ci viene dato il materiale con cui poter modellare poi la nostra definizione.
Le voci di questo dizionario sono in apparenza autonome, ma di fatto interdipendenti.
Così l’assenza (“l’io, sempre presente, non si costituisce che di fronte a te, continuamente assente”) si completa con l’attesa (“la fatale identità dell’innamorato non è altro che: io sono quello che aspetta”). O l’oggetto unico che rappresenta l’amato è inclassificabile, “dotato di una originalità sempre imprevedibile”, mentre l’innamorato si sente costantemente inadeguato e banale, o pensa di aver avuto per forza delle mancanze nei confronti dell’essere amato e si sente in colpa.
Ci sono pagine intelligentissime, come la riflessione sulle ferite che vengono provocate da quel che si vede e non da quel che si sa, ovvero dall’immagine (“ciò da cui sono escluso”) che è poi la grande responsabile della gelosia. Oppure la crudeltà della stanchezza dell’altro, la nostra più temibile rivale (qui chiamato fading: “come un triste miraggio, l’altro s’allontana, insegue l’infinito e io mi logoro nell’attesa del suo ritorno”).
Tra le continue citazioni che vengono fatte per sviuppare i suoi ragionamenti, Barthes si serve soprattutto del Werter di Goethe, seguito da Freud, Nietzsche, Proust e Platone per citarne alcuni, e l’interpretazione è sempre molto originale. 
In conclusione libro utilissimo e tranquillizzante.

giovedì 21 giugno 2012

Il Figlio del Dio Tuono, A. Paasilinna

Il cielo dei Finnici e’ molto piu’ vecchio del resto del mondo e i loro dei lo sono ancora di piu’. Non ce ne sono di piu’ antichi. Il dio del tuono, il piu’ antico di tutti, era gia’ quasi vecchio come oggi quando niente ancora era stato creato e nessun altro dio era nato. Oltre ad essere il piu’ vecchio, e’ anche il piu’ severo e il piu’ potente. E’ il migliore.

Da ormai molti secoli, i Finnici hanno abbandonato la loro fede ancestrale, in favore di religioni straniere e falsi idoli. Riti e sacrifici a Ukko Ylijumala, dio del Tuono, o a Pelto-Pekka, dio della birra, non sono piu’ officiati. Costernati da questa situazione, le divinita’ finniche decidono di inviare sulla Terra Rutja, figlio del dio Tuono, per un ultimo, estremo, tentativo di conversione. Il corpo scelto per l’incarnazione e’ quello di Sampsa Ronkainen, un bottegaio di Suntio, un povero cristo vessato dalle continue richieste di parenti, compaesani e dipendenti.
Rutja scopre presto che in un corpo umano la vita e’ ben piu’ complicata di quella di un dio onnipotente. Piu’ complesso e’ anche il confronto con il popolo finlandese standone in mezzo, piuttosto che osservandolo dall’alto dei cieli. Tuttavia la sicurezza e la forza caratteristiche di un dio non abbandoneranno Rutja durante la sua opera di conversione.

Dopo Doppler, questa e’ per me un’altra convincente lettura scandinava. Anche qui si parla di Natura, di mondi magici e inesplorati, antichi e recenti. I personaggi sono in fondo gente comune, niente eroi, persone come noi confuse e incasinate, ritrovatesi all’improvviso in situazioni paradossali, che offrono una prospettiva nuova sulla nostra normalita’. Certo, non ha la pretesa di essere un testo cerebrale, e qualcuno puo’ vedere in cio’ un grosso difetto.
Ne Il figlio del Dio Tuono, incuriosisce l’ambientazione popolata da divinita’, gnomi, fatine e mostriciattoli delle credenze popolari finlandesi e intriga l’originalita’ dell’incipit. Si ride poi per situazioni paradossali e strampalate, soprattutto quando Rutia si confronta con le opere terrestri del suo collega Gesu’. Certo, non e’ un capolavoro. La trama mi sembra arrancare, ad esempio, soprattutto in chiusura del romanzo. Ma l’ambiente fatato e surreale, assieme allo stile schietto e arzillo, regalano qualche ora di genuina e divertita rilassatezza in lettura. Non mi sembra proprio poco.


sabato 9 giugno 2012

A colpi d'ascia, Thomas Bernhard


Thomas Bernhard è lo scrittore più corrosivo del Novecento. Il suo stile è unico, di una originalità ineguagliabile, e chi riesce ad apprezzarlo (molti lo trovano insopportabile) viene meravigliosamente travolto. Si entra in uno stato di trance che permette di essere trasportati lungo vie a dir poco deliranti, in cui si incontrano la più cupa disperazione e pessimismo con un’ironia dissacrante davvero irresistibile (raramente ho riso tanto leggendo un romanzo).
È proprio di delirio che si tratta: parole e microfrasi ripetute ossessivamente, apparentemente solo per il gusto che la loro pronuncia ci lascia in testa (una ripetizione che arriva a far perdere il significato della parola: Bernhard stimola quegli errori delle sinapsi che ci fanno dubitare della conoscenza della nostra stessa lingua); anatemi scagliati contro ogni tipo di convenzione sociale, dalla più ovvia espressione di cortesia, ai comportamenti quotidiani della maggioranza degli occidentali. Ma è solo l’impressione di un delirio: in verità il romanzo è una vera e propria composizione sinfonica, con temi e controtemi incastonati in una struttura contrappuntistica di stupefacente precisione e lucidità. Solo con una cura maniacale si riesce suscitare una tale impressione di delirio, e con questi mezzi è poi possibile affondare in profondità nella realtà che la società ci impone.
Thomas Bernhard è uno dei pochissimi che sia riuscito a cogliere l’impietosità della vita in comune degli uomini, dei nostri insulsi rapporti sociali, della crudeltà che siamo capaci di scagliare sugli altri e di cui allo stesso tempo siamo vittime. Si passa dall'analisi di dilanianti relazioni amorose o familiari, all’ipocrisia di un semplice invito a cena (nel romanzo sono gli orribili coniugi Auersberger a dare inizio a tutto, incastrando il protagonista con un invito a una macchiettistica “cena artistica”). La vita borghese è dipinta finalmente come una carneficina (per citare il titolo dell’ultimo film di Polanski...) e la sensazione che rimane al lettore è catartica.
L’io narrante nella prima metà del libro è “seduto nella bergère” (come viene ripetuto una media di 5 volte a pagina per un centinaio di pagine) dell’anticamera di questo appartamento viennese e, con il suo sguardo, prende “a colpi d’ascia” la disgustosa melma piccolo borghese che gli sta di fronte. Passerà poi a cena, dove tutto peggiorerà fino alla liberatoria fuga finale, in cui si ritroverà a correre di notte per le strade della sua città, senza una meta, ripetendosi nella testa che dovrà immediatamente scrivere “su questa cena artistica nella Gentzstrasse, non importa cosa, solo subito, pensavo, immediatamente scriverò qualcosa su questa cena artistica nella Gentzstrasse, subito, pensavo, immediatamente, continuavo a pensare, e intanto attraversavo di corsa il centro della città, subito e immediatamente, e subito e subito, prima che sia troppo tardi”.

giovedì 17 maggio 2012

Favole periodiche, Hugh Aldersey-Williams, Rizzoli, 2011


La tavola periodica è una magnifica vittoria della Scienza.
Parlo di vittoria perché spesso in me si insinua la visione dell'attività scientifica come una lotta (impari) tra l'ossessione umana per la razionalizzazione e la complessità opprimente del mondo naturale. Avevo trovato in un libro di fisica generale (mi pare fosse il mitico Halliday Resnick Krane) un piccolo paragrafo, conclusione del capitolo sull'entropia, che mi è rimasto impresso nella memoria. Gli autori, dopo aver narrato dell'ineluttabilità del Secondo Principio della termodinamica, e forse spaventati all'idea di aver così aperto un abisso nell'animo dei lettori, parlavano della capacità degli esseri umani di creare "isole" dalle quali l'entropia è scacciata; luoghi come le pinacoteche, le biblioteche e i musei, dove l'agglomerato di pensiero umano riesce a cristallizzare un poco di realtà e ad arrestarne il continuo vorticare. Questa idea dell'opera umana come contrapposizione all'agire dell'entropia mi piace, particolarmente nel caso della Scienza: ricercatrice di ordine e di interpretazioni.
La tavola periodica è una delle massime espressioni delle tendenze anti-entropiche: nella sua semplicità, universalità ed utilità.
In questo libro H.A.-W., racconta "vita morte e miracoli" degli elementi della tavola. Non è solo un modo di dire! Di pagina in pagina scopriamo quali elementi chimici ci hanno salvato la vita o ce l'hanno migliorata, non solo tramite la medicina ma anche tramite l'arte e l'architettura. D'altro canto invece, non sono poche le storie di elementi che si sono "macchiati" di innumerevoli morti, alcune spettacolari e alcune illustri. Infine, troviamo elementi dalle proprietà miracolose: capaci di risollevare le sorti di un'industria, di lanciare nuove mode e di affossarne altre, di comparire inaspettati durante un esperimento e rivoluzionare la società.
La lettura del libro è scorrevole, la scrittura limpida e senza forzature, in una buona traduzione di Daniele Didero. Lo spirito si potrebbe definire giornalistico, e non sono poche le sintonie con i migliori scrittori di resoconti di viaggi, uno su tutti Ryszard Kapuscinsky. Mentre ci racconta la storia degli elementi e delle personalità che vi ruotano intorno, H. A.-W. è appassionato e mosso da una curiosità contagiosa, che non è quella fredda e nozionistica di una certa letteratura scientifica, ma piuttosto quella vivace e colorata dell'esploratore. La formazione scientifica dell'autore (è chimico) conferisce alla scrittura una rassicurante autorevolezza, ma d'altro canto traspare anche la sua profonda cultura umanistica, ed è proprio questa versatile doppia matrice la vera forza del libro.
In modo simile alla Tavola che vuole raccontare, Favole Periodiche costituisce una magnifica testimonianza del cammino di arricchimento culturale che l'umanità ha percorso. Ne mette in luce i meccanismi più virtuosi insieme a quelli più gretti, le scoperte spinte dalle migliori intenzioni insieme alle creazioni nate per caso o per nuocere. Alla fine, il quadro complessivo ci spinge a trovare e ad apprezzare un valore intrinseco della conoscenza, a sentirci rassicurati dal suo accumulo, bastione contro il dilagare dell'entropia.

giovedì 8 marzo 2012

Amore liquido. Sulla fragilita' dei legami affettivi, Zygmunt Bauman



Non tutti sanno che Zygmunt Bauman e’ un grande sociologo contemporaneo, la cui teoria della vita liquida e’ in gran voga tra intellettuali e commentatori. Piu’ che per questo, in realta’, ne apprezzo l’uomo, che ha il piglio del classico vecchietto del bar sull’angolo, quello che esprime i suoi pareri non richiesti disturbando la clientela. Con uno stile agguerrito, Bauman presenta le sue osservazioni senza richiedere alcuna approvazione al lettore, mentre la sua analisi e’ guidata da una curiosita’ genuina e da una vasta cultura. E ora, il libro.
Uomini e donne contemporanei desiderano una relazione che gli sia di aiuto nei momenti di difficolta’ dell’esistenza ma, allo stesso tempo, vogliono che lo stesso vincolo sia leggero, libero, pronto a essere sostituito con uno migliore. Da questo nucleo Bauman parte per un’analisi ben piu’ vasta, ma mai banale, che spazia dalla relazione nel social network a quella tra migrante e ospitante al giorno d’oggi. In questo libro, per la scientificita’ dell’analisi, Bauman e’ un chirurgo che seziona e ci mostra i diversi tessuti dell’organismo sociale umano. Il punto di vista non annoia mai. Tante volte viene da dire ma perche’ non ci avevo pensato prima?
Il saggio e’ quindi molto interessante, ma ne’ di immediata comprensione ne’ organico. La prima osservazione e’ personale - ho dovuto leggerlo due volte - mentre la seconda e’ dell’autore stesso, come afferma nell’incipit del libro, data la vastita’ del tema trattato. Tuttavia e’ una lettura che merita. Se questo studioso ultraottantenne e’ tanto incuriosito dal mondo da avventurarsi alla sua eta’ in Twitter, non possiamo fare anche noi un piccolo sforzo a buon rendere per riflettere su come viviamo? 

domenica 26 febbraio 2012

Doctor Faustus, Thomas Mann

‘’L’opera! È un inganno. È una cosa che i borghesi vorrebbero ci fosse ancora; è una cosa che cozza contro la verità e contro la serietà’’. Questo dice il protagonista Adrian Leverkün appena lasciata la facoltà di teologia per dedicare interamente la sua vita alla composizione. Ogni opera è artefatto, ed in essa domina l’apparenza: questo perché l’opera ha la pretesa di non essere stata creata, e si presenta al mondo quasi fosse nata ‘’come Pallade Atena dalla testa di Giove’’. Ovviamente si tratta solo di un’illusione: nessuna opera è mai venuta fuori così. Di conseguenza Adrian si chiede se sia ancora valido, perfino lecito, accettare l’apparenza del frutto creatore dell’arte; se, nonostante un’opera appartenga al dominio della bellezza, non sia in effetti altro che menzogna e che quindi non ci sia più oggi (che può essere sia l’oggi di Thomas Mann che il nostro) la speranza di prenderla sul serio.

Come esempio diametralmente opposto all’opera musicale in Occidente si parla nel romanzo di un certo Conrad Beissel, fondatore di una setta anabattista tra la comunità tedesca nella Pennsylvania del XVIII secolo. Questo ignorantissimo pastore iniziò a provare il desiderio di mettere in musica l’immensa mole di insulsi inni sacri che aveva scritto per i suoi seguaci e, trovando le melodie europee troppo complicate, inventò una teoria musicale più semplice e schietta in cui in ogni scala ci fossero ‘’padroni’’ (le note dell’accordo di tonica) e ‘’servi’’ (le altre note) e con pochi accorgimenti sistematizzò tutto. Adrian si sente stranamente attratto da questo racconto: la chiave di tutto è la legge, ‘’ogni legge ha effetti refrigeranti, e la musica possiede tanto calore proprio, calore di stalla...da aver bisogno del refrigerio delle norme’’. È necessario cioè trovare un maestro di oggettività, che sia allo stesso tempo arcaico e rivoluzionario: serve una libertà che renda sterili gli ingegni.

Ma non sembra un controsenso? Insomma, il romanzo tratta di un compositore che stringe un accordo con il diavolo per ottenere un ingegno fecondo e creativo... perché mai si parla di ricerca della sterilità?

In fondo per libertà si intende soggettività, la quale a un certo momento inevitabilmente trova rifugio nell’oggettività delle regole e dei vincoli: ‘’la libertà si attua nella subordinazione’’. Si dice in queste pagine che forse perfino una dittatura, se è nata dalla rivoluzione, è ancora libertà. Cito una frase (a me molto vicina da un punto di vista familiare) che spiega molto chiaramente questo procedimento dialettico: ‘’Il nuovo progetto porta sempre in sé il germe della sua stessa distruzione’’ (da Il dominio e la rivolta, Roberto Tumminelli). Insomma l’organizzazione è tutto, e proprio da qui, da questa sterilità (o ancora, freddezza delle norme), emerge la tecnica compositiva di Adrian, la ricerca del componimento rigoroso, cioè ‘’la completa integrazione di tutte le dimensioni musicali, la loro indifferenza reciproca in virtù di una perfetta organizzazione’’ (in effetti il musicologo Massimo Mila si riferisce alla dodecafonia come ‘’comunismo dei dodici suoni’’), per arrivare infine ad una ‘’indifferenza di armonia e melodia’’. È da notare che l’originalità di questa teoria non è nella atonalità (scioccamente reclamata da Schönberg all’uscita del romanzo come sua proprietà intellettuale) ma ‘’nel carattere generale [di questo tipo di musica] come espressione della decadenza morale e spirituale, del tragico dissidio da essa originato nell’anima di Adrian...’’ (Lucàks, Thomas Mann e la tragedia dell’arte moderna).

Non potremo mai ascoltare i risultati della soluzione di Adrian, come il suo oratorio Lamentatio Doctoris Fausti (in cui c’è un evidente riferimento alla deriva nazista della Germania: ancora dice Lucàks ‘’L’aspirazione all’ordine e alla sintesi, che nasce dalla moderna disgregazione dell’individualità ma rimane puramente soggettiva, sfiora le tendenze che portano al fascismo’’), ma nella storia della musica del Novecento esiste la già citata scuola atonale viennese, e Schönberg, il suo fondatore, vanta numerosi capolavori, ai quali può essere forse rimproverato ‘’un sospetto accademismo formale’’ (sempre Massimo Mila, Breve storia della musica).

Diversa, e certamente scevra di formalismi cerebrali, è invece la soluzione di Beethoven, intensamente discussa nel romanzo. Nell’ultimo Beethoven ‘’la convenzione affiora in un abbandono dell’io che a sua volta esercita un’azione più paurosamente maestosa di ogni ardimento personale’’. Il rapporto che emerge tra gli elementi soggettivi e la convenzione in Beethoven è assolutamente nuovo, perché, si dice, è caratterizzato dal senso di morte, e ‘’dove la grandezza e la morte si incontrano nasce un’oggettività favorevole alla convenzione’’. Non viene detto nulla di più, la spiegazione rimane come sospesa, lasciata forse all’intuizione personale... Comunque di certo emerge una libertà, la quale ‘’diventa il principio di un’economia universale che non lascia alla musica nulla di fortuito’’, la parvenza dell’arte (l’artificiosità di cui si è parlato) viene eliminata: è l’arte stessa che la elimina.

giovedì 2 febbraio 2012

Wislawa Szymborska

Per ricordare questa meravigliosa poetessa, scomparsa ieri, pubblico le due sue poesie che ho più amato negli ultimi anni.

La breve vita dei nostri antenati

Non arrivavano in molti fino a trent'anni.
La vecchiaia era un privilegio di alberi e pietre.
L'infanzia durava quanto quella dei cuccioli di lupo.
Bisognava sbrigarsi, fare in tempo a vivere
prima che tramontasse il sole,
prima che cadesse la neve.
Le genitrici tredicenni,
i cercatori quattrenni di nidi fra i giunchi,
i capicaccia ventenni -
un attimo prima non c'erano, già non ci sono più.
I capi dell'infinito si univano in fretta.
Le fattucchiere biascicavano esorcismi
con ancora tutti i denti della giovinezza.
Il figlio si faceva uomo sotto gli occhi del padre.
Il nipote nasceva sotto l'occhiaia del nonno.
E del resto non si contavano gli anni.
Contavano reti, pentole, capanni, asce.
Il tempo, così prodigo con una qualsiasi stella del cielo,
tendeva loro la mano quasi vuota,
e la ritraeva in fretta, come dispiaciuto.
Ancora un passo, ancora due
lungo il fiume scintillante,
che dall'oscurità nasce e nell'oscurità scompare.
Non c'era un attimo da perdere,
domande da rinviare e illuminazioni tardive,
se non le si erano avute per tempo.
La saggezza non poteva aspettare i capelli bianchi.
Doveva vedere con chiarezza, prima che fosse chiaro,
e udire ogni voce, prima che risonasse.
Il bene e il male -
ne sapevano poco, ma tutto:
quando il male trionfa, il bene si cela;
quando il bene si mostra, il male attende nascosto.
Nessuno dei due si può vincere
o allontanare a una distanza definitiva.
Ecco il perché d'una gioia sempre tinta di terrore,
d'una disperazione mai disgiunta da tacita speranza.
La vita, per quanto lunga, sarà sempre breve.
Troppo breve per aggiungere qualcosa.

Progetto un mondo

Progetto un mondo, nuova edizione,

nuova edizione, riveduta,

per gli idioti, ché ridano,

per i malinconici, ché piangano,

per i calvi, ché si pettinino,

per i sordi, ché gli parlino.


Ecco un capitolo:

La lingua di Animali e Piante,

dove per ogni specie

c'è il vocabolario corrispondente.

Anche un semplice buongiorno

scambiato con un pesce,

àncora alla vita

te, il pesce, chiunque.


Quell'improvvisazione di foresta,

da tanto presentita, d'un tratto

nelle parole manifesta!

Quell'epica di gufi!


Quegli aforismi di riccio,

composti quando

siamo convinti

che stia solo dormendo!


Il tempo (capitolo secondo)

ha il diritto di intromettersi

in tutto, bene o male che sia.

Tuttavia - lui che sgretola montagne,

sposta oceani

ed è presente al moto delle stelle,

non avrà il minimo potere

sugli amanti, perchè troppo nudi,

troppo avviniti, col cuore in gola

arruffato come un passero.


La vecchiaia è solo la morale

a fronte d'una vita criminosa.

Ah, dunque sono giovani tutti!

La sofferenza (capitolo terzo)

non insulta il corpo.

La morte

ti coglie nel tuo letto.


E sognerai

che non occorre affato respirare,

che il silenzio senza respiro

è una muscia passabile,

sei piccolo come una scinitlla

e ti spegni al ritmo di quella.


Una morte solo così. Hai sentito

più dolore tenendo in mano una rosa

e provato maggiore sgomento

per un petalo sul pavimento.


Un mondo solo così. Solo così

vivere. E morire solo quel tanto.

E tutto il resto eccolo qui -

è come Bach suonato per un istante

su un bicchiere.